La recente uscita, per conto di ZIC, di un testo dedicato all’Internazionale antiautoritaria (Le origini dell’anarchismo in Italia) e l’incontro che si terrà a Sant Imier nel luglio di quest’anno in occasione del 150° anniversario della nascita della stessa associazione ci offrono un’occasione di riflessione a più vasto raggio.
Si tratta innanzitutto di un anniversario di un evento che ha segnato la nascita e lo sviluppo del movimento operaio in molti paesi del mondo dando corpo a lotte e organizzazioni e producendo possibilità di trasformazioni rivoluzionarie assolutamente significative, fino all’apice raggiunto nel 1936 in Spagna, cosa che si è cercata di replicare, con altre modalità, con i movimenti del decennio ’60-’70 del secolo scorso. Cosa sia rimasto di quel grande patrimonio di lotte lo sappiamo tutti e tutte, registrando ogni giorno un continuo arretramento sociale sul fronte delle conquiste fatte.
Gli organismi del sindacalismo conflittuale e dell’anarcosindacalismo ci hanno provato in questi ultimi anni, in controtendenza, a ridare senso e vigore ad una ‘tradizione’ che si dimostra vincente quando la lotta di classe la si fa sul serio e non la si subisce. Con l’agitazione dei temi legati soprattutto al salario, alla lotta al precariato, alla guerra e alla militarizzazione della società hanno ripreso e rilanciato, con risultati altalenanti, la volontà di trasformazione sociale insita in ogni lotta radicale che colpisce lo stato di cose presenti. Certo, l’immaginario rivoluzionario che contraddistingueva quanti erano presenti nel 1872 a Saint Imier non è lo stesso di oggi, anche se la critica al capitalismo e agli Stati è rimasta bene o male la stessa in settori ancora significativi della società.
Ma a ben vedere, oggi, la posta in gioco è diventata ben più alta. Cercare di costruire forza per strappare miglioramenti normativi e salariali, anche se assolutamente necessario, non è più sufficiente. Il fatto è che una serie di avvenimenti concomitanti e sostanzialmente inaspettati (il virus , la guerra in Europa, la questione energetica, l’accelerazione del surriscaldamento climatico) ci ha messo di fronte a tante altre urgenze e bisogni.
L’intera umanità si è trovata improvvisamente fragile: un sistema basato sull’illusione che dalla crescita potesse derivare solo progresso e che solo il capitalismo potesse assicurare a tutti e tutte benessere e felicità (la sedicente ‘fine della storia’) si è decisamente impallato, dopo che già una serie di crisi periodiche – l’ultima, quella del 2008 – l’avevano messo in difficoltà. La valorizzazione del capitale, passata dalla produzione alla speculazione finanziaria ha incrementato le ricchezze dei già ricchi ma ha indebolito le economie di interi territori impoverendo la gran massa della popolazione.
Da tempo la deindustrializzazione e la delocalizzazione hanno caratterizzato gli orientamenti di settori significativi del padronato, alla ricerca di manodopera sempre più a buon mercato. La competizione economica ha rilanciato la conflittualità politica e i sistemi di alleanze e di integrazione economica si sono andati progressivamente ridisegnando. Ne sono dimostrazione i conflitti nel Medio Oriente, in Ucraina e la tensione nel Mediterraneo che evidenziano come gli appetiti energetici, sia in terra sia in mare, e la ricerca di territori ove esercitare il controllo economico siano alla base delle instabilità politiche internazionali. Ovunque, dall’Africa all’Asia, dall’America del Sud a quella del Nord, decenni di politiche di tagli ai servizi sociali, di privatizzazioni, di impoverimento, di distruzione dei sistemi economici locali, di una globalizzazione in funzione degli interessi delle potenze mondiali spingono verso una soluzione catastrofica per l’umanità. Non a caso le spese per il sistema militar-industriale crescono a dismisura nel mondo, anche ora quando sarebbe necessario una loro riconversione per finanziare il sistema sociale (sanità e scuola in primis) e sostenere chi perde la fonte di reddito. E invece continua la corsa al riarmo atomico, al miglioramento dei sistemi di puntamento delle armi nucleari, alle produzioni di armi, di navi, di aerei da combattimento. La guerra in Ucraina è diventata emblematica del volume di affari sviluppati – dalla speculazione sulle fonti energetiche alle forniture di armi e al business della ricostruzione post bellica – e non c’è solo questo disgraziato paese. Gran parte dell’Africa sta vivendo una situazione paurosa: dal Sud Sudan ove imperversa una feroce guerra civile scatenata dal regime dittatoriale e che conta già trecentomila morti e milioni di persone in fuga, alla Somalia ormai giunta al trentesimo anno di guerra, all’Eritrea succube anch’essa di un regime dispotico che costringe centinaia di migliaia di giovani in fuga, all’Etiopia e al recente conflitto contro la ribellione tigrina. E si potrebbe continuare, dalla guerra in Centrafrica, alla regione del Sahel che registra un crescente insediamento dell’estremismo fascioislamista, ai conflitti in un Congo sempre più devastato. Situazioni simili sono presenti in gran parte del Medio Oriente, dalla Siria all’Iraq all’Afghanistan allo Yemen mentre la situazione nella Palestina occupata dall’esercito israeliano sembra arrivata ad un punto di non ritorno e altri disastrosi conflitti si profilano all’estremo oriente.
In tutti domina la questione dell’approvvigionamento energetico, fondamentale per un sistema sempre più energivoro, che non si ferma davanti a nulla pur di continuare a camminare. La ricerca spasmodica di risorse energetiche alimenta guerre e conflitti, così come l’acquisizione di terre agricole, il controllo delle acque, il possesso delle terre rare fondamentali per l’hardware dei processi d’informatizzazione.
Parallelamente il surriscaldamento climatico, frutto della stessa attività predatoria, ci indica la necessità di ripensare ad un nuovo sistema di relazioni che sconfigga definitivamente la concezione antropocentrica per considerarci finalmente alla pari di tutte le specie viventi nel rispetto del pianeta nel quale viviamo.
Già nei primi tempi della pandemia si diceva ‘niente può essere come prima, perché è proprio il prima la causa di quanto sta avvenendo’. A distanza di quei primi mesi del 2020 questa affermazione è sempre più vera, ancora più confermata da quello che ne è seguito: il conflitto armato nel cuore di quell’Europa che, pur promuovendo o sostenendo operazioni militari tardo colonialiste ai quattro angoli del mondo, si sentiva al sicuro da avvenimenti di questo tipo. Eppure la guerra covava sotto la cenere pronta a manifestarsi appena se ne creava l’occasione. L’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina, in sostegno ai governi secessionistici delle province orientali, ha dato l’avvio ad un processo di cui ancora oggi – mentre scrivo queste note – non se ne vede la fine.
Mai come oggi è evidente che un sistema basato sull’attività predatoria, sfruttatrice e oppressiva quale è quello capitalista, non è in grado di assicurare un futuro all’umanità che non sia un futuro di distruzione e morte. Anche la tanto sbandierata ‘green economy’ non è altro che una riverniciatura dei vecchi sistemi per fare profitti.
Per ecologia intendono il rilancio delle cosiddette grandi opere (ponti, gallerie, alta velocità), il ritorno al nucleare, la digitalizzazione con l’impulso alle reti 5 G con conseguente incremento di ripetitori e di inquinamento elettromagnetico, l’elettrificazione del trasporto veicolare come se per produrre l’energia elettrica necessaria a muovere i motori – e a far funzionare tablet, smartphone, ecc. – bastassero le fonti di energia rinnovabile e non i minerali fondamentali alla costruzioni delle batterie, in buona parte provenienti da miniere come quelle congolesi, non a caso oggetto di una feroce guerra di fazioni e di uno sfruttamento tremendo anche dell’infanzia; ciliegina sulla torta il puntare sull’idrogeno, verde o blu che sia, con tutte le problematiche che comporta in termini di produzione, stoccaggio e uso. Ristrutturazione favorita poi da una riforma della burocrazia e della giustizia, per velocizzare dicono i processi decisionali e gli investimenti esteri; in realtà per ridurre ulteriormente controlli e contestazioni.
Green economy? In realtà è solo una ristrutturazione di un sistema industriale che vuole continuare a fare profitti, mentre ci sarebbe bisogno di una reale conversione ecologica che affronti il tema dell’abitare con l’inversione di tendenza all’urbanizzazione speculativa fatta di insignificante ‘arredo’ urbano, di grattacieli e di tanto cemento; il tema dell’alimentazione, con il superamento del cibo spazzatura, di quello chimico e modificato, e della grande distribuzione che vive sullo sfruttamento intensivo di una manodopera immigrata e clandestinizzata nelle bidonville parallelamente a quello degli animali non umani rinchiusi nelle gabbie e nei recinti degli allevamenti intensivi; il tema della produzione e del consumo che non possono più rimanere nelle mani di pochi a fine esclusivo di profitto, ma devono essere ripensati per un uso sociale, collettivo e condiviso.
E ora soprattutto il tema della salute e della cura, con quello che abbiamo vissuto e che stiamo continuando a vivere in conseguenza del Covid 19, sperando di non dover assistere a nuove epidemie/pandemie tipo ‘vaiolo delle scimmie’.
Non è più possibile tollerare un sistema che fa del profitto il suo principale obiettivo nell’affrontare il tema della sanità pubblica. In Italia come altrove i tagli alla spesa pubblica, operati da tutti i governi ormai da decenni seguendo le linee guida neoliberiste, la riduzione del personale sanitario e l’incremento del carico di lavoro, le politiche di privatizzazione e di aziendalizzazione, il privilegiare alcuni campi di cura, più redditizi, a scapito di altri, hanno permesso che un’epidemia sicuramente seria ma governabile assumesse una dimensione tragica soprattutto per gli strati più fragili e poveri della società. A questo si aggiunge la questione vaccinale che ha evidenziato il modello d’affari grazie al quale l’industria farmaceutica genera da decenni margini di profitto astronomici alla faccia dei bisogni della salute delle popolazioni. Considerare la salute come un prodotto commerciale qualsiasi da cui ricavare il massimo del guadagno è intollerabile. Come è intollerabile concentrarsi nella produzione di medicinali utili al trattamento di malattie croniche, di lunga durata, che danno guadagno e ignorare le terapie per le malattie infettive particolarmente presenti nei paesi poveri, che non rendono nulla. La sanità deve essere universale, aconfessionale, gratuita, libera da condizionamenti e deve essere sottratta dalle grinfie delle multinazionali e del profitto, così come tutti i beni e i servizi primari necessari per la vita su questo pianeta, pure i ritrovati realmente efficaci per la cura delle malattie devono essere messi a disposizione di tutti demolendo la logica speculativa del brevetto.
Un ragionamento simile va fatto anche per le risorse energetiche, per l’acqua, per i prodotti dell’agricoltura. Il surriscaldamento climatico ci pone di fronte a tematiche dai contenuti sempre più estremi, dal razionamento dell’acqua al suo controllo, dalla desertificazione di intere aree al conseguente spostamento di popolazioni alla ricerca di una vita possibile; il dilemma ‘condizionatori o petrolio’ non risolve la contraddizione ma la porta al suo massimo sviluppo, soprattutto per un paese dipendente in buona parte da forniture energetiche esterne come il nostro.
La gestione delle risorse energetiche, e di tutte quelle che possono essere definite come ‘beni sociali’ – per grandissima parte della storia dell’umanità patrimonio delle comunità – deve rimanere tale o tornare a essere tale. E’ intollerabile, socialmente ed eticamente parlando, che ci si arricchisca speculando su di esse, provocando nel contempo privazioni e sofferenze nelle popolazioni.
E’ questo un fronte di lotta che ha assunto – e che continuerà ad assumere – un’importanza fondamentale visti gli sviluppi quantitativi dell’umanità. Ricordo a questo proposito che nel giro di pochi decenni la popolazione mondiale si è moltiplicata ad un ritmo tale da portare i temi ambientali, e soprattutto quello del rapporto tra l’umano e il non umano, al centro dell’attenzione. Ogni giorno notizie sulla devastazione dei territori, l’abbattimento di foreste secolari, il massacro delle specie non umane, la siccità e l’esaurimento dei ghiacciai ci danno un quadro di una situazione sull’orlo della sostenibilità, una sostenibilità che viene continuamente sbandierata dal ‘nuovo’ volto del capitalismo che cerca di intercettare le preoccupazioni delle popolazioni per indirizzarle ad una mercificazione totale di quello che chiamiamo semplicemente ‘natura’.
D’altronde non è una novità per il capitalismo – nella sua fase tardo neoliberista – di cercare di presentare un volto ossequiente nei confronti delle popolazioni, stimolando e creando bisogni per far ‘girare’ la macchina di uno sfruttamento costruito su un sostanziale consenso. Un consenso comprato con l’elargizione della libertà di consumo, di movimento, di relazioni, di comunicazione; una libertà che pare dare, ad una buona fetta della popolazione, per lo più abbiente, soddisfazione e felicità. Ma il capitalismo e il sistema politico che lo sorregge e lo utilizza sa bene che ogni forma di libertà può evolvere e trasformarsi fino a diventare un’arma che gli si contrappone. Ecco quindi che questa libertà è accompagnata da forme di controllo sociale sempre più invasive e diffuse valendosi dei mezzi forniti dalla moderna tecnologia informatica. In poco più di vent’anni dispositivi, applicazioni, servizi hanno invaso la sfera pubblica diffondendosi a livello di massa in tutto il globo e offrendo al potere un’arma efficace per sondare, registrare, conoscere quelle che sono le reazioni della popolazione ad un particolare avvenimento, oppure quello che bolle in pentola tra i gruppi dell’attivismo sociale e politico. I miliardi di messaggi che giornalmente viaggiano su WhatsApp, i quasi tre miliardi di utenti di Facebook, per non parlare di Google e di altre applicazioni similari, costituiscono la manna dal cielo per i servizi investigativi e per l’economia digitale che sulla quantità stratosferica dei dati circolanti basa la sua crescita grazie alla trasparenza degli utenti.
Non basta non avere smartphone, computer, tablet, ecc. per sottrarsi a questo controllo: la rivoluzione informatica riguarda ogni aspetto della vita, ogni settore sociale e produttivo – basta pensare alla videosorveglianza, ai sistemi di riconoscimento facciale, ecc. – ed essere ‘connessi’ – e quindi controllati – è conseguente.
D’altronde il continuo martellamento che si fa sui pericoli, veri o presunti, che la condizione umana deve affrontare nel suo percorso di vita su questo pianeta favorisce una continua insicurezza individuale e sociale alla quale si risponde con una richiesta di protezione e soprattutto di prevenzione. Quanti affermano di ‘non avere nulla da nascondere’ richiedono più polizia, controlli, telecamere e così via e – mentre la privacy e le sue carte servono unicamente all’inutile lavoro burocratico – la nostra vita viene messa sempre più nelle mani di un potere che tende al dominio assoluto.
Diventa indispensabile una strategia di rottura con il sistema di dominio. Per fare questo abbiamo bisogno di prefigurare e organizzare, in tutte le sfere della vita sociale, una trasformazione radicale. In questo senso la costruzione di una forza capace di autogestione sociale è indispensabile se vogliamo sconfiggere le classi dominanti, per difenderci dai meccanismi economici e dalle istituzioni che ci opprimono con politiche securitarie e repressive e con gerarchie sociali di comando e obbedienza.
È necessario sostenere in tutto il mondo le organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici, i movimenti che si oppongono al neoliberismo, che lottano contro la guerra, lo sfruttamento, la precarizzazione e le forme di distruzione della vita sociale e dei territori: il tempo delle riforme impossibili è finito, occorre un ribaltamento della prospettiva di vita e di organizzazione sociale in nome della solidarietà, della partecipazione, della cura, in costante conflitto con il sistema capitalistico. Ma non per ripercorrere strade già fatte che ci hanno portato dove siamo oggi.
Bisogna prendere in mano, direttamente, le proprie organizzazioni di lotta, senza deleghe.
Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano sempre più efficaci gli scioperi, le lotte territoriali; che pratichino nel contempo solidarietà e che sappiano porre al centro dell’attenzione il tema del controllo della produzione e del consumo, della salute nostra e del pianeta.
Anche per questo è importante ricordare quanto prefigurò e propose chi si ritrovò a Saint Imier in quel lontano 1872: un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni. Un mondo di libere ed eguali è possibile ed è necessario se vogliamo che veramente nulla sia più come prima.
Massimo Varengo